Che il futuro sia del passato è una sensazione che in molti
percepiamo in maniera sempre più chiara. Per essere rafforzati e
riconosciuti nel contesto internazionale, in senso moderno e
indipendentista noi lavoriamo alla riattivazione delle regioni classiche
della Sardegna e il ritorno alle comunità, alle vicinanze prime. E lo
facciamo da tempo perché sono i blocchi di partenza di un’altra
dimensione civile. Un percorso paziente, ma inesorabile, che va
dall’ambiente alla cultura, dal fisco all’acqua, dall’economia
all’energia.
Paradossalmente oggi ci vengono incontro le negative condizioni di
esistenza dell’isola, che ne ridefiniscono gli equilibri interni e le
equità in un panorama in cui le rappresentanze politiche, non ovunque
per fortuna, hanno smesso di essere considerate punto di riferimento.
Abbiamo chiaro che nell’anti-partitismo omologato si innescano reazioni
umorali sconfinanti nella perdita totale di fiducia nelle Istituzioni e
l’azzeramento delle mediazioni, soprattutto nei centri urbani.
Ciò che sembra destinato ad aumentare in questo quadro di povertà è
il clientelismo come pratica di acquisto del consenso in cambio della
miseria, un gradino sopra la sopravvivenza. E non è lontano da questo
modus operandi la trasformazione dell’istintivo «togliamoli di mezzo
tutti», in una “consultazione esca” per il popolo.
Lasciano perplessi questi 10 quesiti referendari, contengono segmenti
di semplificazione quasi soveranisti accanto a seri rischi di
accentramento oligarchico. Non si preoccupano di invogliare meccanismi
di rifiuto senza traiettoria in una società già gravata dalla
disperazione del sottosviluppo dichiarato. Nessuno dei promotori ha
rinunciato alle proprie prebende nemmeno come gesto propedeutico o
propagandistico, e così parte male la riacquisizione del rapporto
diretto e fiduciario che la politica vorrebbe mettere in atto con la
gente. Se di crisi morale si parla, anche quest’etica va messa in conto.
Ma il fiato dell’indipendenza lo hanno avvertito anche i meno svegli e
infondo interrogarci sul nostro destino non ci fa male. Certo è che ciò
che non sono riusciti a fare in Giunta Regionale lo sintetizzano in un
colpo di spazzola populista, come restyling di sé. Può stare nella
libertà democratica di partecipazione politica, ma la maggior parte
delle richieste referendarie le hanno già soddisfatte Monti e Bruxelles,
con la complicità sarda. L’abbassamento già avvenuto da 80 a 60
consiglieri, non ha suscitato reazioni nella politica sarda ed è un
golpe bipolare; la mancanza di rappresentanza dietro i tagli alla spesa,
lascia in campo i privilegiati, che anzi ne propongono 10 in meno. La
scure Monti dietro la BCE di Draghi, ha già trasformato le province in
enti locali di secondo grado (non votano i cittadini ma i Comuni), i
consigli saranno di 10 membri (eletti tra gli stessi consiglieri
comunali), le giunte spariranno: non un commento dei partiti isolani,
che nel 2000 erano tutti favorevoli alle 8 Province. Il Consiglio
Regionale approvò nel 2001 una legge che l’autorizzava a deliberare
l’istituzione di un’Assemblea Costituente, poi si arenò in Commissione
Affari Costituzionali del Senato e nulla più. Da qui si capisce entro
quali confini può agire la Sardegna.
Gli “enti carrozzone” resteranno in piedi anche senza consigli
d’amministrazione, restituendo totale centralità alla Regione, alla
faccia dei rafforzamenti comunitari locali, per esempio sui beni comuni.
Il Referendum è un atto autoperpetuazione come tanti si vedono in
queste scelte politiche dell’ultima ora: tengono sotto pressione la
psiche dell’elettore, si beccano i rimborsi e continuano a ignorare le
reali necessità dell’isola e le reali potenzialità.
La nostra Carta Costituzionale deve bastare a noi stessi, senza
approvazioni esterne. Proviamo a respirare un’altra storia, non quella
della reazione, ma quella della ri-evoluzione, un processo di coscienza
senza prese per i fondelli che fanno solo un piacere all’Italia e
all’Europa.
Bettina Pitzurra
DA IRS CASTEDDU
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