Oggi i giornali si svegliano e, secondo il consueto copione della
disinformazione disorganizzata fatta con la pancia e non col cervello,
seguono l’ultima lepre che la disperazione ha messo in circolazione.
Oggi le pagine sono state conquistate dal Pecorino Rumeno (fatto da
italiani o da sardi immemori), nonché da tutti gli altri formaggi che
in giro per il mondo imitano i formaggi italiani e sardi. Da qui
l’appello a maggiori controlli.
Se però si passa dagli appelli, che fanno crescere i lamentosi ma non
risolvono i problemi, alle soluzioni, intorno alle quali matura una
nuova classe dirigente forgiata dalla fatica dell’operare con giustizia,
allora il quadro cambia e aumentano le responsabilità interne, dei
sardi dico.
Quando feci la legge 1/2010 sugli agriturismi e sui prodotti regionali,
venni assalito dai produttori sardi (dai grandi produttori sardi) perché
non si inserisse, seppure forzando un po’ la normativa italiana, la
clausola che prescriveva l’uso della parola Sardegna solo per quei
prodotti i cui componenti fossero interamente tracciabili all’interno
dell’isola. Insomma, se fosse passata questa linea, nessuno che usi
grani o farine, per esempio, ucraini avrebbe potuto parlare di pasta,
fresca o secca, sarda; o nessuno che fa formaggi con latte non sardo
avrebbe potuto dire che si trattava di formaggi sardi (non parliamo di
quelli che stanno comprando le cagliate fuori e poi rifilano i formaggi
come sardi); o nessuno che coltiva ortaggi e frutta avrebbe potuto
spacciare come sardi ortaggi o frutta importati e poi confezionati in
Sardegna; stesso discorso vale per l’olio d’oliva.
DAL BLOG DI PAOLO MANINCHEDDA ...
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