ProgReS Progetu Repùblica – Gaddhura – Montacutu
Juanne Maria Anzoe, o Angioy, era
indipendentista, come tutti noi. Sardo, Repubblicano e Indipendentista.
Dopo un lungo percorso che gli costò anche l’esilio arrivò alla
conclusione che la Sardegna si sarebbe potuta sviluppare secondo i
principi illuministi e borghesi del tempo solo con la creazione di una
Repubblica Indipendente sul modello francese. Morì a Parigi, lontano
dalla propria terra, cercando di convincere Napoleone a organizzare una
spedizione nell’Isola in aiuto al Popolo Sardo e ai patrioti che
volevano l’Indipendenza dal Piemonte e dal regno sabaudo.
Per usare dei termini di paragone con la
storia italiana Juanne Maria Anzoe era un Mazzini, un Garibaldi e un
Cavour messi insieme. Ma era anche uno di noi, uno che il percorso
indipendentista lo fece tutto, da fedele suddito funzionario di sua
maestà Vittorio Amedeo a patriota Sardo ribelle esiliato.
E una volta compiuto questo percorso, indietro non si torna. Si possono avere mille idee di Sardegna indipendente, si può discutere sui metodi per raggiungere questa Indipendenza, ma il fine ultimo quello resta, senza “se” e “ma”. Angioy pagò di persona per questo ideale, perse i beni, la terra, la famiglia e si ritrovò solo in un paese straniero, praticamente nullatenente. Eppure anche lì nella sua testa il fine ultimo rimaneva, fisso e inossidabile, come un’ossessione: la Repubblica di Sardegna.
Un Ideale che attraversava i tempi, nel quale sembrava rivivessero i ricordi dell’epopea arborense, i Mariano, gli Ugone, le Eleonora, gli Alagon e parve realizzarsi allorché la ribellione del 28 aprile 1794 uscì dalle mura di Cagliari e attraversò l’intera Sardegna, trasformandosi in rivoluzione vera e propria. I feudatari spodestati, contadini e pastori che imbracciavano le armi e accorrevano tra le fila dei patrioti, nascevano inni, l’intera Sardegna esplodeva come dinamite fino al trionfo di Sassari.
E l’avvenimento restò così impresso nella testa dei Sardi che anni dopo altri due patrioti, Cilocco e Mundula, tentarono uno sbarco a Santa Teresa di Gallura per sollevare la popolazione, e ancora in seguito a Cagliari si ebbe la congiura di Palabanda.
E una volta compiuto questo percorso, indietro non si torna. Si possono avere mille idee di Sardegna indipendente, si può discutere sui metodi per raggiungere questa Indipendenza, ma il fine ultimo quello resta, senza “se” e “ma”. Angioy pagò di persona per questo ideale, perse i beni, la terra, la famiglia e si ritrovò solo in un paese straniero, praticamente nullatenente. Eppure anche lì nella sua testa il fine ultimo rimaneva, fisso e inossidabile, come un’ossessione: la Repubblica di Sardegna.
Un Ideale che attraversava i tempi, nel quale sembrava rivivessero i ricordi dell’epopea arborense, i Mariano, gli Ugone, le Eleonora, gli Alagon e parve realizzarsi allorché la ribellione del 28 aprile 1794 uscì dalle mura di Cagliari e attraversò l’intera Sardegna, trasformandosi in rivoluzione vera e propria. I feudatari spodestati, contadini e pastori che imbracciavano le armi e accorrevano tra le fila dei patrioti, nascevano inni, l’intera Sardegna esplodeva come dinamite fino al trionfo di Sassari.
E l’avvenimento restò così impresso nella testa dei Sardi che anni dopo altri due patrioti, Cilocco e Mundula, tentarono uno sbarco a Santa Teresa di Gallura per sollevare la popolazione, e ancora in seguito a Cagliari si ebbe la congiura di Palabanda.
La reazione vinse, la repressione fu dura
e crudele. Le teste mozzate dei martiri rimasero per mesi esposte sulle
mura delle città sarde a monito. I feudatari, un’esigua minoranza di
privilegiati, eredi dell’aristocrazia fondiaria parassitaria di origine
spagnola, mantennero ricchezza e privilegi, e divennero la colonna
portante del nuovo potere, quello Sabaudo. Prima nel Regno di Sardegna,
poi per espansione nel Regno d’Italia, quindi come Regione Autonoma
all’interno della Repubblica italiana, le istituzioni dell’Isola altro
non furono che strumenti degli interessi di un’esigua minoranza di
privilegiati, con la gran parte della popolazione esclusa da qualunque
possibilità di emancipazione. E ancora oggi la situazione permane tale e
quale.
La rivoluzione industriale in Sardegna
avvenne tardi, fu una farsa, un’imposizione, la creazione di impianti
politici più che economici, strutture di controllo sociale e
dominazione. Industrie in perdita mantenute attraverso sovvenzioni
statali, lavoratori pagati per produrre il nulla, dirigenti che in
realtà erano funzionari di partito o speculatori, pronti a scappare dopo
aver sfruttato debitamente tutto ciò che c’era da sfruttare.
Il vero sviluppo, quello basato sulla
riforma agraria, su una razionalizzazione dei sistemi di economia
autoctona, quello che voleva Angioy, sarebbe dovuto andare di pari passo
con la fine del feudalesimo e l’annullamento dei privilegi, che
richiedevano però la fine della dominazione straniera e la creazione di
una Repubblica Sarda indipendente. Non è avvenuto, e oggi queste élite
parassitarie sono ancora in sella.
Il 28 aprile è stato eletto a Die de sa
Sardigna da questa stessa classe politica e intellettuale, dagli eredi
di coloro che hanno mozzato le teste ai patrioti e esiliato Angioy,
dagli stessi che allora si inginocchiavano davanti ai Vicerè di turno.
Un paradosso che non ha eguali nel Mondo, come se che ne so, gli Inglesi
del Nord Irlanda facessero propria la festa di San Patrick, o gli
italiani del Sudtirolo festeggiassero la Notte dei fuochi di Andreas
Hofer, magari trasformandole in scampagnate fuori porta e dedicandole al
re d’Inghilterra o a Gabriele D’Annunzio.
Per questo la chiamano Die de sa Sardigna
e non Festa de sa Libertade, o de Sa Natzione Sarda, per dire. Per
questo la dedicano un anno alla Brigata Sassari, un anno a qualche poeta
o scrittore, un anno magari a Sant’Efisio, un anno al Cagliari dello
scudetto, un anno propongono di dedicarla alla Lingua sarda, ma mai alla
Repubblica sarda, alla Nazione sarda, all’Indipendenza, ciò che nei
fatti, in realtà invece fu.
Lo dobbiamo pretendere del resto da chi in questo sistema ci ha sempre sguazzato? Lo dobbiamo pretendere da chi parla di difesa della lingua come un feticcio, un qualcosa di distinto dalla nazione sarda e dalla sua indipendenza? Lo dobbiamo pretendere da chiunque veda l’indipendenza come uno spauracchio?
Ecco perché quindi questa festa ha perso di anno in anno il suo significato, fino a diventare quasi una delle tante ricorrenze regionali italiane. Un normale moto di contadini e di braccianti che si ribellavano ai signori feudali. Le rievocazioni sono ridotte a mero folklore, come una qualsiasi sagra paesana.
Lo dobbiamo pretendere del resto da chi in questo sistema ci ha sempre sguazzato? Lo dobbiamo pretendere da chi parla di difesa della lingua come un feticcio, un qualcosa di distinto dalla nazione sarda e dalla sua indipendenza? Lo dobbiamo pretendere da chiunque veda l’indipendenza come uno spauracchio?
Ecco perché quindi questa festa ha perso di anno in anno il suo significato, fino a diventare quasi una delle tante ricorrenze regionali italiane. Un normale moto di contadini e di braccianti che si ribellavano ai signori feudali. Le rievocazioni sono ridotte a mero folklore, come una qualsiasi sagra paesana.
Ma che se ne sia impossessata la gente
sbagliata non vuol dire che il fatto storico sia stato cancellato. Oggi
più che mai Angioy, Mundula, Cilocco, patrioti che per i loro Ideali e
per la Nazione Sarda hanno dato la vita, restano dei punti fermi per
tutti noi, che facciamo politica senza pensare al guadagno o a un posto
pubblico, o al vitalizio da parlamentare.
Sa die de sa Sardigna è la festa della
Rivoluzione nazionale sarda, è simbolo di Libertà, Emancipazione,
Indipendenza, è il giorno per ricordare a tutti che siamo una nazione
senza stato e che lavoriamo quotidianamente per costruire la nostra
repùblica.
La possono girare come vogliono, ma in
qualunque lingua si scriva, l’Idea resta, come punto fermo, bagliore di
luce nella notte, e quell’Idea, che ieri era di Angioy e oggi è la
nostra, può solamente essere la Repubblica sarda indipendente, europea,
aperta al mondo.
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