I fondamenti storici dell’indipendenza sarda Parla il presidente di ProgReS Omar Onnis Deidda
Per il quarto appuntamento con l’indipendentismo sardo proponiamo una lunga chiacchierata con Omar Onnis Deidda, nuorese attualmente residente a Trento, presidente di ProgReS – Progetu Repùblica, studioso di storia sarda, blogger e bibliotecario.I temi sono vari: la nascita della moderna visione indipendentista, le relazioni tra questa visione e le parentesi indipendentiste – o di indipendenza vera e propria – separatiste e autonomiste che la nostra storia ha conosciuto, il “mito” della costante resistenziale, le basi culturali dell’indipendentismo moderno e il perché, oggi, è indispensabile che la Sardegna raggiunga la sua maturità storica creando uno stato indipendente.
Da dove partono, a livello temporale, le pulsioni indipendentiste della nostra Isola? Esiste un continuum dal periodo nuragico a quello giudicale, e magari da quello giudicale a oggi?
Si può parlare di indipendentismo sardo solo in relazione all’epoca contemporanea e più specificamente alla condizione di regione dello stato italiano, in cui la Sardegna si è ritrovata, praticamente senza volerlo e senza nemmeno capire dove andavamo a finire, solo a cose fatte. Da quel momento (stiamo parlando dunque di un secolo e mezzo fa o giù di lì) è lecito parlare di indipendentismo in senso proprio. Le prime manifestazioni del desiderio diffuso di uscita dalla dipendenza sono riconoscibili già nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento. In quella fase, esauritasi la spinta ideale del primo autonomismo (quello dei vari Siotto-Pintor, Tuveri, Asproni, Fenu, ecc., suscitato dalla delusione per gli esiti della Perfetta Fusione), l’ambito politico sardo si era votato ad altri paradigmi.
Il campione e il dominus dei quali è sicuramente individuabile in Francesco Cocco Ortu, emblema e primo grande sperimentatore della politica di intermediazione tra stato italiano e Sardegna. Un metodo efficace in cui, tramite una capillare rete clientelare, si garantiva lo status quo sull’Isola e si conquistavano per sé (in Italia) e per il proprio clan (in Sardegna) cariche, vantaggi, prestigio. Cocco Ortu fu più volte ministro, in età giolittiana. Diciamo che rappresenta il modello a cui, a dispetto della retorica dominante, si è ispirata tutta la politica autonomista sarda degli ultimi sessant’anni, con pochissime eccezioni.
Quanto al discorso sulle continuità storiche, qui ci andrei molto prudente. La nostra è una vicenda collettiva lunga e complessa, fatta di fenomeni di lunga e lunghissima durata ma anche di iati, di cesure e di dimenticanze, che spesso hanno impedito di riconoscere il significato e la natura dei processi più duraturi e di comprendere le dinamiche in corso, le loro cause strutturali, la loro relazione col passato. Di sicuro non si può parlare di indipendentismo per epoche precedenti quella attuale.
Per l’epoca antica il discorso non si pone proprio. È abbastanza ridicolo fare di Amsicora un eroe indipendentista (moderno). Tuttavia si è in realtà fatto di peggio: se ne è fatto un eroe “autonomista”, il che suona a dir poco ridicolo e anche abbastanza penoso, sinceramente.
Ancora. La lunga guerra tra sardi e catalani, conclusasi col definitivo assoggettamento dell’Isola alla corona iberica (aragonese prima, spagnola poi) era una guerra tra entità politiche in qualche modo precorritrici della modernità, che facevano il proprio gioco dentro il vasto conflitto per l’egemonia nel Mediterraneo occidentale. La Sardegna, sotto la dinastia arborense, aveva conquistato nel corso del XIV secolo una propria soggettività internazionale, che la poneva al centro di tale conflitto. Era anche una guerra per l’indipendenza dell’Isola, chiaramente, per certi versi già “moderna”. Ma non nei termini in cui tale questione si pone oggi. Allora non c’era alcun dubbio che i sardi fossero sardi (anzi, il conflitto aveva accelerato inevitabilmente i processi di identificazione collettiva, in anticipo rispetto agli analoghi fenomeni europei) e che la loro patria fosse la Sardegna (come inciso nella campana bronzea di Ugone III).
In epoca spagnola non esisteva alcuna pulsione indipendentista, per il semplice fatto che la Sardegna era di suo un regno, un ordinamento giuridico a sé, certamente inserito (tramite la persona del re) nel vasto contesto imperiale spagnolo. La discussione politica in quella lunga epoca riguardava questioni interne (spesso rivalità tra fazioni e clan aristocratici) o le relazioni istituzionali con la corona, ma certo non si poneva in dubbio che i sardi fossero sardi e nemmeno la legittimità della monarchia iberica, tanto più che la classe dominante sarda era discendente o tributaria dei conquistatori aragonesi e catalani. Ma è altrettanto anacronistico attribuire significati autonomisti alle vicende di quel periodo (per esempio le varie rivendicazioni del “parlamento” sardo, o la torbida vicenda dell’assassinio del viceré, marchese di Camarassa, del 1668).
Quanto alla nostra epopea rivoluzionaria (purtroppo ancora largamente misconosciuta), anche lì è del tutto improprio intravedere una questione indipendentista, non foss’altro perché, ancora una volta, nessuno metteva in dubbio che la Sardegna fosse una entità esistente di per se stessa. Certamente la proclamazione della repubblica avrebbe avuto esiti decisivi riguardo il rapporto con la corona sabauda. Ma non era in discussione l’esistenza di un territorio e di una popolazione definiti come “sardi”, caso mai era in discussione la forma di governo.
Tanto meno, anche qui, possono essere applicate categorie come autonomia e autonomismo. Cosa che invece purtroppo si fa, anche a livello iatituzionale e nella narrazione dominante (veicolata dalla scuola e dai mass media): pensiamo alla legge istitutiva di Sa Die de sa Sardigna, o alle delibere che annualmente ne stabiliscono il finanziamento. Si parla sempre di “valori autonomisti” da diffondere, specialmente presso i giovani. Mai capito cosa siano questi “valori autonomisti”.
Teniamo presente, poi, come accennavo, che tra le varie fasi della nostra storia per lo più si sono create delle cesure abbastanza nette e significative. Non si è consolidata una memoria condivisa. In epoca rivoluzionaria ad esempio non si sapeva alcunché della storia giudicale, non era un riferimento storico a cui rifarsi. Lo dimostrano i documenti dell’epoca (due su tutti: l’inno di Francesco Ignazio Mannu del 1795 e il memoriale francese di Giovanni Maria Angioy del 1799).
Così come, nel primo Novecento, il sardismo e l’autonomismo non ricorsero all’epopea rivoluzionaria per fondare in un passato significativo e ancora “parlante” le proprie basi teoriche e politiche. I leader del sardismo erano essi stessi vittime del sistema di formazione italiano, che a sua volta veicolava una narrazione dei sardi e della loro storia del tutto subalterna, barbarica, figlia di un ipotetico isolamento millenario, da cui poteva estrarci solo la luce di una civiltà superiore: quella italiana.
Oggi, a fatica, incontrando forti resistenze, stiamo provando a riallacciare i nodi della nostra storia. C’é un nesso evidente tra rimozione storica e debolezza economica e civile. Tuttavia la conoscenza di noi stessi è una condizione necessaria ma non sufficiente a costruire una nuova prospettiva politica.
Eviterei comunque gli anacronismi e le avventurose ricostruzioni pseudostoriche. Purtroppo la mancanza di una memoria condivisa e le gravissime lacune della storiografia sarda lasciano campo libero a qualsiasi volo pindarico, a compensazione della depressione cui ci costringe il nostro mito identitario. Esiste una fortissima domanda di storia, tra la nostra gente, ma l’offerta è davvero scarsa, specie in termini qualitativi.
2) Da dove nasce e come nasce l’indipendentismo moderno ?
Come detto, si può parlare di prime vere istanze indipendentiste solo per i primi del Novecento, quando circolavano opuscoli sovversivi con la parola d’ordine “emancipazione” (ossia, indipendenza dall’Italia) e nelle piazze, nelle occasioni di socializzazione, si diceva o spesso si gridava “a fora sos continentales” (ce lo testimonia lo stesso Nino Gramsci, come si sa).
Ma erano pulsioni ancora irriflesse. Mancava totalmente qualsiasi base storica, qualsiasi nozione compiuta di noi stessi. I sardi erano allora catalogati come esotici, come delinquenti o al più come utile carne da cannone. L’intellettualità sarda del tempo, tributaria come detto verso i modelli culturali italiani, non aveva una preparazione molto migliore sul nostro conto di quella che aveva il popolo e il gioco degli interessi di classe faceva sì che non si formasse una avanguardia politica aperta e consapevole che potesse farsi carico di guidare l’istintuale indipendentismo diffuso verso esiti politici definiti. Le cose cambiano nel secondo dopo guerra e sprattutto negli anni Sessanta del Novecento. In quel momento si verifica un fenomeno degno di nota.
La disarticolazione del tessuto culturale e sociale dell’Isola procede a grandi passi, grazie alla follia del piano di Rinascita, alla militarizzazione del nostro territorio e al contempo grazie alla scolarizzazione di massa e alla diffusione dei mass media (televisione in primis). Ma è anche il momento in cui molti sardi acquisiscono per la prima volta in modo massiccio gli strumenti critici della contemporaneità. C’è un improvviso risveglio delle coscienze.
Il sardismo tradizionale e l’autonomismo non sembrano bastare più. Nasce la riflessione (non conclusa e per certi versi inconcludente) di Mialinu Pira, si approfondisce quella di Giovanni Lilliu, ecc. E nasce, sulla scorta della grande riflessione anti- e post-coloniale, il neo-sardismo indipendentista di Antoni Simon Mossa. Per quanto minoritario, quello è il germe dell’indipendentismo contemporaneo, la cui prima fase si conclude con la riscrittura in salsa indipendentista dello statuto del PSdAz e con la fallimentare stagione del “vento sardista”, negli anni Ottanta del secolo scorso, con le sue ricadute nel decennio successivo. In anni più recenti il percorso si è arricchito di elaborazioni e teorizzazioni, meno schematiche e più critiche, anche auto-critiche, e oggi il tema è ormai uscito dalla clandestinità.
La nuova fase dell’indipendentismo contemporaneo è quella nata intorno al 2003 e dura tutt’oggi. C’è ancora molta resistenza nei centri di interesse che dominano l’Isola, sia in senso materiale sia nella produzione di informazioni. È chiaro che porre la questione dell’indipendenza della Sardegna in termini non più folkloristici, o puramente ideali, o magari banalmente rivendicazionisti, ma invece impostarla secondo riflessioni più strutturate, in consonanza con gli studi internazionali, e fondandola su progetti seri, è assolutamente destabilizzante per gli attuali assetti di potere.
3) La costante resistenziale di Lilliu ha a che vedere con l’indipendentismo? Cosa distingue l’autonomista dall’indipendentista oggi?
La costante resistenziale è funzionale all’ideologia sardista e all’autonomismo. Ossia è per sua natura avversa a qualsiasi forma di autodeterminazione compiuta dei sardi. In più, è una tesi storica piuttosto debole, per non dire del tutto infondata. Porre la questione della costante resistenziale è utile per ridiscutere tutta la narrazione tossica della nostra identità. Mi spiego meglio. Noi tutti diamo per scontato che esista una identità sarda. È un luogo comune, uno stereotipo; di più, è un canone, a cui non ci si può sottrarre.
Se andiamo a vedere di cosa sia composta questa pretesa identità, troviamo aspetti storici (per lo più falsi, o costruiti ad arte), vaghi elementi antropologici elevati a dogmi, questioni del tutto contingenti prese come costanti storiche di lunghissima durata, strani complessi psicotici, simboli ambigui. Un assemblaggio di materiali mitologici che formano il nostro mito fondativo, ma lo formano come mito “tecnicizzato”. Non un mito che nasce e si sviluppa nell’humus di una memoria condivisa, di una appartenenza chiara, di una definita percezione di sé nello spazio e nel tempo, bensì qualcosa di assemblato, di artificioso.
L’identità sarda, così come la concepiamo oggi, è un costrutto totalmente contemporaneo, frutto di un sistema egemonico che ha necessità di un fondamento ideale, mitico appunto, radicato nell’immaginario collettivo, capace di giustificare l’esistente. Pensiamo alla sciocchezza del nostro isolamento millenario, che ci avrebbe tagliato fuori dal corso della Storia (con la rigorosa “s” maiuscola) ma anche preservato in qualche modo puri, autentici, fin dentro l’epoca contemporanea. Pensiamo al luogo comune del “pocos locos y mal unidos”, tanto caro alla nostra retorica auto-giustificazionista e deresponsabilizzante, tra l’altro spesso erroneamente attribuito a una definizione dei sardi data da Carlo V (tanto per nobilitare la nostra auto-denigrazione traendola da una fonte prestigiosa). E questi sono solo pochi esempi.
Tutta roba che nasce nel Novecento, sul terreno fertilizzato nel secolo precedente, il terribile Ottocento, dalla nostra “orientalizzazione” (ossia, catalogazione come razza inferiore), poi dall’attribuzione “scientifica” di un’indole delinquenziale congenita, quindi dalla scoperta e canonizzazione dai nostri costumi pittoreschi ed esotici (la Sardegna come la “Patagonia” dell’Italia, scriveva Giulio Bechi, nel 1914).
È con questo materiale, e in termini espliciti di subalternità, che viene fondata la stessa ideologia sardista, a sua volta base ideale dell’autonomismo. E nasce come antidoto a qualsiasi discorso di autodeterminazione e di indipendenza nazionale. Le parole di Lussu, alla camera dei deputati, nel 1921, sono emblematiche, al riguardo. Quelle di Bellieni, sulla nostra condizione di nazione abortiva, sono agghiaccianti. Ma quel taglio così tragico è stato presto messo in secondo piano dall’orgoglio dell’appartenenza a una collettività “speciale”, fondato sul sangue versato per l’Italia.
In quella cornice concettuale si è incastrato tutto il pastrocchio della nostra identità sarda. Una sottospecie di nazionalismo, in fondo, ma senza pretese, con un orizzonte artificiosamente chiuso su se stesso. Dentro questa narrazione, negli anni Sessanta, si inserisce la tesi della costante resistenziale. Non so sinceramente quali fossero le intenzioni di Giovanni Lilliu, postulando la presunta resistenzialità dei sardi. Di sicuro questa tesi soffre delle stesse carenze e ambiguità di sui soffre tutto il pensiero sardista e tutta la nostra narrazione identitaria. I sardi non hanno mai resistito a nulla. Al contrario, sono sempre stati immersi nelle correnti culturali e storiche delle varie epoche.
In diversi periodi la Sardegna ha prodotto o ha partecipato a pieno titolo alla migliore civiltà europea e mediterranea. Una terra dai confini così definiti, con una presenza umana ininterrotta almeno dal paleolitico, inevitabilmente si è sempre relazionata con le correnti della civiltà a modo suo. Qualsiasi elemento di tipo economico, culturale o politico che intervenga in un contesto siffatto viene conformato dalla presenza di una stratificazione storica di tale profondità e complessità. Il che non ha nulla a che fare con una presunta resistenza dei sardi, databile addirittura all’Età del Ferro o giù di lì.
La Sardegna ha prodotto o ha condiviso civiltà anche dopo l’epoca nuragica. La civiltà non scompare: sedimenta, si stratifica, viene sottoposta alla tettonica dei mutamenti storici, per poi riemergere come vena originale in altre epoche. Ha un andamento carsico, la civiltà. Ecco perché la Sardegna ha sempre risposto in modo originale e fecondo alle spinte della storia. In tutte le epoche. Anche adesso basta prendere in considerazione la nostra produzione letteraria, artistica, musicale, sociale e persino economica in tutte le loro forme, per renderci conto di quanta civiltà produciamo anche in questo periodo tormentato.
La costante resistenziale nega tutto ciò, disegna una storia dei sardi come popolazione sì legata al proprio passato mitico, ma in termini passivi, nei termini di una pervicace e ostinata resistenza alla civiltà, alla storia stessa. Si fonda sul mito delle continue dominazioni e della nostra costante sconfitta. Ed è anche fonte di equivoci etnocentrici, di divisioni artificiose tra sardi veri e sardi un po’ così: montagna contro pianura, interno contro coste, Barbagia contro Campidano… L’idea stessa di civiltà nuragica concepita da Lilliu e dai suoi seguaci (più dogmatici del maestro, bisogna dire) è sintomatica: una cultura chiusa, conflittuale, barbarica. Anche qui, tesi imposte nella narrazione dominante, ma senza grandi sostegni documentari.
Qui mi riallaccio alla distinzione tra autonomismo e indipendentismo. Occorre la massima chiarezza, su questo punto. Autonomia e indipendenza non sono sinonimi e non costituiscono nemmeno stadi dello stesso processo. Sono termini alternativi. O si persegue una o si persegue l’altra. Il significato politico e giuridico dei due concetti prevale decisamente sulla loro banale interpretazione etimologica. Tant’è che tutti i partiti che dominano la Sardegna, pur essendo per lo più succursali oltremarine di partiti italiani o costruiti su quel modello, si dichiarano autonomisti. E al contempo – direi conseguentemente – sono e spesso si professano apertamente anti-indipendentisti (al di là di alcune recenti dichiarazioni di comodo, esclusivamente retoriche).
4) Perché il singolo cittadino sardo dovrebbe pensare di appoggiare l’indipendentismo? Non basta il federalismo? Come nasce il sentimento indipendentista in un sardo, nel 2012?
Il federalismo, come l’autonomismo, è cosa del tutto diversa dall’indipendentismo. Cambia la prospettiva, cambiano i passaggi giuridici da pianificare e cambiano anche i riferimenti teorici. Inoltre è pragmaticamente assurdo promuovere una federazione tra Sardegna e Italia, come fossero due entità grosso modo paritetiche. In ogni caso, cosa ci sarebbe da guadagnare per i sardi dal federalismo in salsa italiana, è tutto da capire. Ma è un falso problema, dato che il federalismo in Italia non si farà mai, se non a prezzo della disintegrazione dello stato italiano medesimo (per come è stato storicamente costruito).
Detto ciò, circa i motivi che possono condurre a un impegno politico di tipo indipendentista, posso giusto fare riferimento alla mia esperienza personale. Io ho fatto la scelta di impegnarmi concretamente per l’indipendenza della Sardegna circa cinque anni fa. Tuttavia la mia prima presa di coscienza veramente consapevole in questo senso risale a una ventina di anni or sono ed è da ricollegare allo studio della nostra storia. Ma questo è già un processo di maturazione intellettuale e politica strutturato. Alla base c’è sicuramente la percezione, esistente in tutti i sardi, di una appartenenza forte alla propria terra e alla propria gente. Percezione istintuale che poi spesso è declinata soggettivamente in termini eterogenei, a volte ambigui o paradossali, e però innegabile.
Mi servo ancora del mio esempio. Per molto tempo ho osservato con sconcerto e a volte con repulsione lo scenario politico indipendentista degli anni Novanta. A parte la figura di Angelo Caria, la cui parabola però è stata prematuramente spezzata, non vedevo alcun teorico all’altezza delle necessità e alcun disegno strutturato e credibile. Sentivo e leggevo slogan, a volte piuttosto fuori tempo massimo, rivendicazioni verso l’Italia che mi sembravano antitetiche rispetto a un sano discorso di autodeterminazione responsabile, ignoranza o rimozione dei problemi pratici (da quelli economici a quelli giuridici).
Insomma, esisteva una grave lacuna di progettualità politica, anche facendo salve le buone intenzioni e il disinteresse dei vari leader (spesso in conflitto tra loro, bisogna anche dire). Questi limiti dell’indipendentismo sardo non sono tutti scomparsi. In parte permangono ancora. Ma sono stati affiancati – e a mio avviso ampiamente superati – da una visione più matura.
Ricordo la grande mobilitazione contro il nucleare del 2003. Quello fu un momento di riscoperta di un sentimento di appartenenza forte, in Sardegna, dopo anni di declino dell’indipendentismo militante. Momento a cui i sardi diedero anche un esito politico, eleggendo Soru alla presidenza della regione (un equivoco epocale e molto sintomatico). Ma sempre in quegli anni si affacciarono sulla scena nuove prospettive, come le teorizzazioni prima del gruppo di Su Cuncordu, poi di Franciscu Sedda, Frantziscu Sanna e Franciscu Pala, reduci da quell’esperienza e quindi fondatori di iRS. Lì si intravedevano le nuove potenzialità della prospettiva indipendentista. La nonviolenza come principio fondante di una nuova prassi, il ripudio del nazionalismo, la critica serrata al sardismo e all’autonomismo, ai loro simboli e alle loro realizzazioni teoriche e politiche, l’apertura culturale. Un patrimonio oggi largamente acquisito. La cosa poi è maturata negli anni.
Ci sono stati apporti diversi, si è ampliato lo sguardo, le circostanze storiche hanno posto il problema in altri termini. Molti giovani, senza alcuno spirito nostalgico o pulsioni identitarie dogmatiche, si sono avvicinati alla politica indipendentista, si sono costruite proposte credibili, forti (sulla fiscalità, sui trasporti, sulla questione linguistica, su molti temi strategici o contingenti), si sono assunte posizioni politiche nuove, si è cominciato a tenere conto dello scenario internazionale. E si sono corrette alcune storture del passato. Oggi – faccio l’esempio del mio partito, ProgReS – Progetu Repùblica – noi possiamo presentarci ai sardi senza alcuna zavorra leaderistica, senza sindromi da accerchiamento e senza paura del confronto.
Questo forse da solo non basta a convincere i sardi della bontà del nostro progetto e della prospettiva dell’indipendenza. La mia paura però non è che non si riesca in questo intento, bensì che le condizioni storiche ci impongano di qui a breve scelte drastiche che noi – noi come sardi – ci troveremo ad affrontare senza equipaggiamento e personale politici adeguati. L’indipendenza della Sardegna è una necessità storica. Non trascendente, ma originata dalle dinamiche e dalle relazioni tra fattori storici.
Una terra geograficamente a se stante, storicamente così ricca e stratificata quale è la Sardegna, con la necessità vitale di essere aperta al mondo, non può emanciparsi in termini economici, sociali e civili se non perseguendo una convinta sovranità e una propria soggettività politica nello scenario internazionale. Del resto, gli esempi a nostra disposizione parlano chiaro.
Malta è poco più che un enorme scoglio, abitato da 400000 esseri umani. È uno stato indipendente e sembra godere di salute decisamente migliore rispetto a noi. In ogni caso, ha la piena responsabilità di sé e la capacità di interloquire a livello internazionale in tutte le sedi. Persino Cipro, pure condizionata da una situazione storica conflittuale non ancora risolta, sta meglio della Sardegna. È un’isola di 700000 abitanti. E questo per limitarci alle isole mediterranee. In realtà nel mondo almeno un quarto degli stati iscritti all’ONU è grande come la Sardegna o più piccolo.
La Sardegna indipendente non sarebbe una strana creatura anacronistica (come qualcuno sostiene), ma semplicemente un dato di fatto perfettamente sensato, dentro le logiche storiche del nostro mondo. Come dice Alex Salmond, leader del SNP (il partito che porterà la Scozia all’indipendenza tra un paio d’anni), “la condizione naturale di una nazione è l’indipendenza”. Chiarisco che noi ci riferiamo al concetto di nazione come a qualcosa di dinamico e inclusivo: non si tratta certo della nozione giacobina o ottocentesca, tanto meno di quella fascista.
Oggi come oggi, che siamo una nazione lo dicono tutti, persino in consiglio regionale. Non resta che agire coerentemente con questa premessa condivisa. Al 40% dei sardi già la cosa non fa alcuna paura, secondo il recente sondaggio delle Università di Cagliari ed Edimburgo. Bisogna lavorarci su. È una prospettiva proficua, che può aprire per tutti i sardi una stagione di grande crescita intellettuale, morale e anche economica. Ci sono studi internazionali che ce lo suggeriscono. E c’è soprattutto la constatazione oggettiva che la Sardegna come regione dello stato italiano non uscirà mai dal perenne stato di crisi in cui è entrata nel corso dell’Ottocento.
Oggi come oggi direi che l’onere della prova sia decisamente invertito. Non è più necessario dimostrare le buone ragioni della prospettiva indipendentista, ma caso mai spiegare a che titolo e per quali motivi dovremmo restare ancora una appendice periferica, marginale e insignificante di uno stato geograficamente, storicamente e economicamente altro da noi, i cui interessi per bene che vada non coincidono con i nostri e di solito sono in aperto contrasto.
5) Quali riferimenti culturali sono basilari per capire l’indipendentismo sardo?
Non è facile rispondere a questa domanda in termini esaustivi. Molta della elaborazione teorica necessaria la stiamo producendo adesso o è stata avviata negli ultimi anni. C’era una grave lacuna, in questo senso (fattore decisivo nell’immaturità dell’indipendentismo fino ai primi anni Duemila).
Direi che si può suggerire, a chi si avvicini solo ora a quest’ambito politico e teorico, di saccheggiare a piene mani la vasta produzione reperibile in Rete sia nei siti delle varie organizzazioni politiche, sia su altri spazi (blog, social media e quant’altro). La Rete è uno dei fattori decisivi nell’espansione teorica e anche quantitativa dell’indipendentismo attuale. Poi naturalmente si può attingere ad alcuni testi per così dire canonici. Sarebbe bello che esistesse una edizione critica completa degli scritti di Antoni Simon Mossa. Qualcosa in giro c’è. Quella è una fonte da cui partire.
Poi ci sono testi non prettamente indipendentisti, che però aprono prospettive, offrono risorse teoriche. Penso a La Rivolta dell’oggetto, di Mialinu Pira, penso agli scritti di Bachis Bandinu, come Lettera a un giovane sardo, e alle riflessioni di intellettuali come Cicitu Masala, Eliseo Spiga, Placido Cherchi. Di Bachis Bandinu fondamentale è il recente saggio Pro s’indipendentzia: una lettura preziosa, che segna una maturazione coraggiosa nel pensiero del grande antropologo e intellettuale bittese.
Segnalo ovviamente anche gli scritti di Franciscu Sedda (da Tracce di memoria a I sardi sono capaci di amare, pasando per La vera storia della bandiera dei sardi). Lì c’è una rilettura critica del sardismo e dell’autonomismo, la discussione argomentata sui fondamenti della nostra identificazione contemporanea, l’analisi semiotica e politica sulle nostre simbologie e le nostre mitologie subalterne. Ma non dimenticherei di chiamare in causa anche le nostre produzioni artistiche, musicali (tradizionali e non) e letterarie (in tutte le lingue dei sardi, italiano compreso), che offrono un panorama vasto e articolato di segni, narrazioni, elementi discorsivi e identificativi. A volte in termini complessi, ambigui, non risolti, ma quasi sempre stimolanti.
Ne approfitto anche per una promozione pro domo mea, diciamo così. Da qualche mese abbiamo ripreso le trasmissioni di Radio Indipendentzia, la nostra emittente online. A parte ottima musica, trasmettiamo molti programmi di approfondimento, non solo politico. Sono reperibili anche in podcast (basta cercare su internet o su facebook, non è difficile). Anche lì si trova molto materiale utile. Sempre nell’ambito della nostra produzione teorica, ritengo doveroso segnalare il nostro Documento di Politica Linguistica, frutto di un lavoro pluriennale coordinato dall’etnologo dell’Università del Michigan Martino Dibeltulo (di Tempio), a cui abbiamo lavorato in tanti, mettendo a frutto un vasto assortimento di competenze, e con un esito veramente significativo (lo dico anche sulla base delle reazioni suscitate). Si tratta di un chiaro esempio di politica indipendentista non nazionalista e nonviolenta.
A un altro livello, direi che si può proficuamente attingere ai testi strettamente storici relativi alla nostra età contemporanea, direi dall’epoca sabauda in qua. Importante, per esempio, la produzione storiografica di Girolamo Sotgiu. E anche la storia del sardismo e del PSdAz di Salvatore Cubeddu. Poi, in ambito più generale, c’è la saggistica post coloniale, che offre molti spunti di riflessione, anche in termini oppositivi, perché no, ma sempre utili a stabilire contorni, cornici concettuali, a spezzare stereotipi e narrazioni sclerotiche. Non dimentico la grande riflessione gramsciana, dalla quale si può trarre molto materiale ancora buono. E poi strutturalismo e post strutturalismo, da Lévi-Strauss a Deleuze e Foucault. Ma anche la riflessione sulla mitologia di Furio Jesi è particolarmente utile per il nostro caso.
Sicuramente dimentico qualcuno. È inevitabile.
Quel che conta è che si affronti la lettura e lo studio con uno sguardo più aperto e sereno. Questo troppo spesso è mancato in Sardegna. Molti nostri grandi intellettuali (penso a un Mialinu Pira) si sono arrestati sulla soglia delle conseguenze lineari delle premesse che essi stessi avevano posto. Per paura, per conformismo, per solitudine, non lo so. L’intellettualità sarda – tenuto conto delle debite eccezioni, che per fortuna non mancano (faccio un nome non casuale: Michela Murgia) – è ancora molto indietro, su questo terreno, così come l’università, tragicamente arroccata su un conservatorismo privo di prospettive, fattore frenante, anziché trainante, della nostra emancipazione culturale e civile. Paradossalmente si trova materiale interessante più su pubblicazioni accademiche internazionali che su quelle sarde (e non parliamo di quelle italiane). Un esempio su tutti è quello di Eve Hepburn, scozzese, una dei massimi studiosi della politica sarda contemporanea. Ovviamente, pressoché sconosciuta in Sardegna.
6) Come si raggiunge l’indipendenza? Ha basi fondate questo percorso?
L’indipendenza è un progetto complesso. Deve tenere conto di diversi livelli di intervento e di diversi fattori determinanti. Quello culturale, quello economico, quello politico e quello giuridico. In generale è ragionevole aspettarci che venga raggiunta in termini democratici e condivisi, in base al diritto internazionale, attraverso negoziazioni e passaggi istituzionali pianificati a puntino. Un po’ quel che hanno fatto Repubblica Ceca e Slovacchia, al momento della separazione. O come il processo avviato da Groenlandia e Danimarca. Le sorti della Scozia nei prossimi due, tre anni ci diranno poi ancora qualcosa sui percorsi e gli esiti possibili.
Certo è che non si può prendere in considerazione, da alcun punto di vista, il percorso eversivo violento, il conflitto armato, come strumento di liberazione ed edificazione della repubblica di Sardegna. Ce lo suggerisce, oltre che il buon senso, anche la storia dei movimenti di liberazione nazionale europei contemporanei. Ma noi, e in fondo tutto l’indipendentismo sardo, seppur non condividendo esplicitamente la scelta nonviolenta (che è quella che contraddistingue, nella teoria e anche nella prassi, ProgReS), abbiamo ormai maturato la coscienza della necessità di un percorso democratico.
Bisognerebbe intanto cominciare a esercitare compiutamente tutta la sovranità che l’ordinamento giuridico attuale ci consentirebbe. Cosa che le forze politiche dominanti in Sardegna si sono sempre guardate bene dal fare. Inoltre si dovrebbe spingere per allargare tali spazi di sovranità, fino all’estremo limite consentito dalla vigenza dell’ordinamento giuridico italiano in Sardegna. Ma questo sarebbe solo strumentale a preparare il terreno per il salto decisivo: la vertenza storica per la nostra acquisizione definitiva e completa della sovranità e per il nostro riconoscimento giuridico a livello internazionale. Sarà probabilmente necessario, in una fase avanzata di questo percorso, un referendum popolare, non certo consultivo “regionale”, ma con valore giuridico dirimente a tutti gli effetti, organizzato e gestito sotto l’egida dell’ONU, con tutte le garanzie del caso.
Da poco leggevo dei commenti a proposito del referendum consultivo per cui ha raccolto le firme Maluentu, il gruppo di Doddore Meloni. Una delle argomentazioni forti degli oppositori radicali a questo discorso è che la costituzione italiana non prevede la separazione di un pezzo del territorio dello stato. Ma questo è un argomento capzioso, piuttosto puerile. È chiaro che un ordinamento giuridico statale non può prevedere la possibilità del proprio smembramento. Ma nel caso della nascita di uno stato nuovo non si ragiona in termini di diritto interno, bensì in termini di diritto internazionale. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli è sancito dalle convenzioni internazionali a cui aderisce anche l’Italia. I meccanismi della autoproclamazione di indipendenza sono già stati fatti valere: esistono precedenti anche relativamente recenti, in quest’ambito, che non possono essere ignorati. Senza contare che l’indipendenza della Sardegna non menomerebbe in alcun modo il territorio italiano, di cui geograficamente non fa parte. Non creerebbe alcun problema di confini o di giurisdizione.
Certamente la cosa va preparata e gestita nel migliore dei modi, senza trascurare le necessarie misure economiche e sociali che diano alla Sardegna una base solida su cui fondare il proprio ordinamento giuridico sovrano. Qui c’è un nodo decisivo dell’intero processo. La creazione di dinamiche virtuose di tipo economico, connessa alla questione energetica. Le possibilità ci sono tutte, le risorse – a dispetto di quanto ancora si racconta – ci sono ugualmente. Basta metterle a frutto in nome e per conto degli interessi generali e diffusi dei sardi, e non a vantaggio dei vari padroni esterni a cui tanta parte della classe dominante sarda fa riferimento.
7) Quale Sardegna indipendente?
Viviamo in una fase di transizione storica. Che ci piaccia o no. Questo genere di fasi storiche non comporta mai soluzioni lineari, rapide e indolori. E non sappiamo bene cosa ci riservi il futuro, nemmeno quello prossimo. Di solito queste transizioni tendono a far prevalere gli elementi di conflitto, su varia scala, senza escludere la guerra. È bene tenerne conto, senza farci troppe illusioni circa una nostra esenzione dalle brutture cui la nostra specie si dedica da sempre così volentieri. Nondimeno è doveroso analizzare la situazione presente a livello generale e provare a inserirvi la nostra prospettiva, anche ipotizzando scenari drammatici in ambito finanziario, economico e politico nel breve periodo.
La Sardegna ha bisogno di riappropriarsi del proprio territorio e di gestire le proprie risorse nel proprio interesse. Questo comporta, al contrario di quanto predicano i detrattori dell’indipendentismo, una totale apertura verso tutte le interdipendenze che oggi ci sono drammaticamente preculuse dal filtro costituito dalle istituzioni e dagli interessi italiani. L’orizzonte di riferimento della Sardegna deve essere a 360°, aperto verso ogni direzione, compresa la sponda sud del Mediterraneo. Oggi il nostro orizzonte è un arco di circonferenza che va da Roma a Milano.
Nel perdurare dei sommovimenti che caratterizzeranno la storia europea e mediterranea dei prossimi anni sarà indispensabile che ci ritagliamo una nostra soggettività riconosciuta e che la spendiamo per promuovere tutti i processi di integrazione possibili, sia in Europa sia in ambito mediterraneo. Sarà una prospettiva anti-ciclica, nel senso che tutto sembra spingere in direzione opposta, verso i particolarismi, i nuovi nazionalismi, le discriminazioni e i conflitti. Ma noi abbiamo la possibilità di essere per una volta un laboratorio economico, politico e culturale virtuoso, e non il laboratorio per gli esperimenti interessati di qualcun altro, come siamo da un paio di secoli in qua.
La nostra ricchezza culturale fa di noi già adesso una nazione plurale. Abbiamo un patrimonio linguistico particolarmente ricco, per esempio, che ci connette col mondo intorno a noi. La nostra condizione demografica, inoltre, ci consentirebbe una politica di accoglienza ben diversa dalle chiusure xenofobe di molta parte dell’Europa e del Mediterraneo. L’indipendenza nazionale sarda non potrà basarsi su alcun essenzialismo etnico o sulla discriminazione in base alla provenienza. È e sarà sardo chi vuole esserlo.
La Sardegna potrebbe essere la patria di tutti gli esseri umani liberi. Di tutti i talenti creativi in cerca di occasioni. Noi stessi di talento creativo ne produciamo in misura davvero notevole: basterebbe far diventare questa enorme risorsa umana il motore della nostra convivenza, anziché un effetto collaterale e tutto sommato clandestino della nostra precarietà storica attuale.
Si imporrebbe con ogni evidenza una scelta decisa contro la guerra, una proclamazione di neutralità attiva e non di comodo, onde evitare di essere schiacciati dai giochi geopolitici tra potenze regionali e globali nello scenario mediterraneo (esito a cui invece siamo esposti oggi, e non c’è nemmeno bisogno di evocare le nostre servitù militari, per capirlo). Dico neutralità attiva, perché dovrebbe farsi valere sullo scenario internazionale, grazie alla conquistata rappresentanza nelle sedi in cui gli stati hanno voce in capitolo, da quella europea all’ONU.
L’Italia, posto che esista ancora di qui a dieci anni, non sarebbe affatto un avversario. Non c’è alcuna necessità di impostare la nostra emancipazione politica su una base conflittuale con l’Italia. A meno che non sia l’Italia a volerlo. La maggior parte delle magagne che ci affliggono dipendono da responsabilità nostre. Meglio chiarirlo. L’Italia, se vorrà, sarà un nostro partner commerciale, politico e culturale, come gli altri. La Sardegna è una terra ricca, da molti punti di vista. Si tratta solo di liberare questa ricchezza e di inserirla proficuamente in una rete di relazioni produttive in senso materiale e immateriale che la esalti, sia all’interno sia con l’esterno. Tutto ciò è e sarà possibile solo in un quadro di indipendenza nazionale.
Non c’è alcuna alternativa pratica credibile, nel mondo attuale. Non c’è altra sede che un ordinamento giuridico sovrano per appropriarci di una soggettività politica legittima e riconosciuta in sede internazionale e per offrire ai sardi uno spazio minimo di libertà, di cura di se stessi e ragionevoli aspettative di benessere diffuso. Se l’Unione Europea resisterà agli scossoni presenti e a quelli incombenti, è chiaro che dovremo poter giocare le nostre carte anche in quell’ambito, provando a contribuire alla sua evoluzione, se necessario.
Egoisticamente potremmo anche dire che il momento di crisi globale è favorevole a un percorso di indipendenza della Sardegna più di una situazione di relativa stabilità. Non dico che dovremmo approfittarne (perché non funzionano in modo così schematico, queste cose), ma crisi vuol dire anche possibilità e certo noi non dobbiamo esserne spaventati. Abbiamo ben poco da perdere, se non le nostre catene.
LACANAS
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